Mauro Aurigi
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Firenze, 27.1.2016
Relazione alla Commissione di inchiesta regionale su Monte dei Paschi di Siena
Perché prima di ora, nell’ultimo secolo e mezzo dall’unità del Paese, non c’è mai stata una crisi bancaria come questa? Ossia, perché per la prima volta la facciamo pagare ai risparmiatori?
Semplice: prima c’erano le banche pubbliche (San Paolo di Torino, Cariplo di Milano, Monte dei Paschi e la gran parte delle Casse di Risparmio) in buona salute a cui la Bankit faceva ricorso. Il Monte dei Paschi, per esempio, dovette accollarsi due banche fiorentine fallite nel 1936 e poi accorpate col nome di Banca Toscana. Poi, negli anni più recenti, ha incorporato la Banca Popolare di Napoli, la Cassa di risparmio di Prato, la Cassa Rurale di Bari, la Banca 121, il Credito Commerciale, la Popolare Siciliana ecc. La Bankit ricompensava questo “soccorso” con premi come la concessione di nuovi sportelli dei quali aveva il monopolio e dei quali le banche pubbliche avevano un bisogno estremo per estendere la propria attività.
Perché ora la Bankit non può più ricorrere a quel “soccorso”? Elementare: quelle ottime banche pubbliche non ci sono più. Perché non ci sono più? Cerco di spiegarlo.
LE CRISI
Le crisi globali sono prevedibili. Non che se ne possano prevedere le dimensioni o la data, ma si può stare sicuri che prima o poi si verificheranno. Negli ultimi 125 anni di crisi globali ce ne sono state 4, in media una ogni 30 anni a partire dal 1890 circa per finire con quella attuale. In ognuna di queste crisi tutte le banche private italiane più importanti sono fallite.
1. Fine ‘800. Prese il via dall’arrivo del grano americano trasportato in Europa a basso prezzo grazie all’uso della navigazione a vapore. Generalmente va sotto il nome di “Scandalo della Banca Romana di Sconto”. Fallirono la Banca Romana di Sconto, la Banca Generale, la Società di Credito Generale ecc. Distrutta ogni risorsa finanziaria nazionale, le nuove banche private furono costituite con capitali soprattutto tedeschi e svizzeri: Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma ecc.
2. Dopo 1.a guerra mondiale. Più nota come il “Martedì nero di Wall Street”. Nuovo fallimento di tutte le banche private: Banca Commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma, Banca Toscana, Banco Santo spirito e una miriade di banche minori.
3. Dopo 2.a guerra mondiale. Non fu una crisi improvvisa e devastante come le altre, ma diluita nel tempo grazie agli accordi di Brettonwood (1944), tanto è vero che non ha neanche un nome. Nei successivi 50 anni però sparirono tutte le principali banche private: Banco Ambrosiano (Calvi), Banca Privata Italiana (Sindona), Istituto Bancario Italiano (Pesenti), Banca d’America e d’Italia, Banca Nazionale dell’Agricoltura, Credito Lombardo, Banca Agricola Mantovana, Banca Cattolica, Banca Antonveneta, Banca 121, Credito commerciale, ecc.
4. La crisi attuale detta dei sub prime nordamericani. Ne parleremo più avanti.
PERCHE’ LE BANCHE PRIVATE FALLISCONO MENTRE QUELLE PUBBLICHE INGRASSANO
Per capire il fenomeno basta rifarsi a Adam Smith, padre della moderna scienza economica e strenuo assertore della libertà di mercato. Oggi si definirebbe uomo della destra più pura, ma allora i liberali erano invece la sinistra estrema che si batteva contro oscurantismo e assolutismo regio. All’epoca in Inghilterra vedevano la luce, per la prima volta nella storia, le public company, ossia le società anonime o per azioni. Ecco cosa scriveva a questo proposito nel 1754 nella sua monumentale opera, “La ricchezza delle Nazioni” il nostro Smith:
“Queste società sono dirette senza controllo da soggetti che non impiegano il proprio denaro nell’impresa e che non possono quindi impegnarsi con la passione e l’accortezza che è naturale in chi rischia in proprio: esse vivono pertanto nella confusione e nella trascuratezza e sono destinate a poco onorevole fine”
(Due secoli e mezzo prima aveva previsto la fine del Monte dei Paschi e perché).
Ne è risultato che in questi 125 anni le banche pubbliche, magari antiche e di ridotte dimensioni e interessate più che altro al loro territorio (inizialmente anche i tre Banchi meridionali – Napoli, Sicilia e Sardegna – prima che venissero ingoiati dal malaffare politico-mafioso) arrivavano puntualmente alle crisi in ottima salute e stracolme di liquidità propria e per l’ancora oggi nota propensione al risparmio della nostra provincia. Risultato: non avevano bisogno di redigere i famosi quanto farlocchi piani industriali della moderna attività bancaria. Bastava che aspettassero le crisi piccole e grandi e sarebbero cresciute pacificamente e automaticamente di dimensioni e potere, visto che non solo avevano, a differenza della banche private stremate, molto fieno in cascina ma avevano anche a disposizione tutto il pascolo, senza concorrenti. Un classico caso di “siedi sulla ripa del fiume e aspetta: prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”.
Ma l’elemento di fondo che ha assicurato in Italia la fortuna delle banche pubbliche è proprio il fatto di essere state create dal territorio per il territorio e da questo tenute direttamente o indirettamente sotto controllo (cosa questa che le teneva lontane dalla finanza allegra e dalla grande finanza speculatrice, quella, per intenderci, dei grossi profitti e degli altrettanto grossi rischi).
Tanto per esemplificare. Nel 1983 il prof. Piero Barucci, preside della Facoltà di Economia a Firenze, viene nominato presidente del Monte dei Paschi, ancora brillantissima banca pubblica, la banca più solida d’Europa. Intervistato da Il Sole 24 ORE così risponde alla domanda su quale effetto facesse passare dall’università fiorentina alla grande banca senese: “Un effetto stranissimo: dieci minuti dopo che in Deputazione (CdA) si è presa una delibera, se ne discute già al bar del Nannini. Ti senti sul collo il fiato della gente”.
Ma già negli anni ’80 inizia il cambiamento. A Roma arriva al governo il “decisionista” Craxi (e a Siena arrivano i “decisionisti” Luigi Berlinguer all’Università e Pierluigi Piccini al Comune). Poi c’è stato il ventennio berlusconiano. Contemporaneamente il Capo dello Stato Napolitano e D’Alema (ma anche Berlusconi) cianciavano della necessità di affidare più potere all’esecutivo. In sintesi un tremendo terremoto sul delicato equilibrio democratico italiano: il potere concentrato sempre in un numero minore di mani. Com’è logico che sia ne risente anche e soprattutto la salute economica: nel Paese (e a Siena) la crisi strisciante comincia allora ed è continuata fino a culminare nel 2008. Tanto per spiegare: se il nostro PIL cresceva, è vero, circa dell’1% ogni anno, quello dei i nostri soci europei cresceva del 3%. Nella sostanza noi arretravamo ogni anno del 2%.
Cosa scoprì allora la classe dirigente italiana? Scoprì raccapricciata che il sistema bancario italiano era tutto pubblico, insomma una foresta pietrificata (Giuliano Amato), una palla al piede dell’economia (Callieri vicepresidente della Confindustria). Di più: era, dicevano, un sistema senza concorrenza (invece tutti i fallimenti di banche di cui sopra certificano semmai un eccesso di concorrenza, non un difetto). Ecco dunque trovato il capro espiatorio, l’untore, il responsabile della stagnazione nazionale. Cominciò una crociata e una sorta di caccia alle streghe, cose in cui non temiamo rivali: politici di tutti i colori, economisti, stampa, tv, perfino arcivescovi, tutti in armi contro le banche pubbliche. Non una sola voce si alzò a contrastare la marea montante (a parte quella del sottoscritto, ma non la sentì nessuno). La Confindustria italiana, allora una delle più ricche e potenti del mondo, si guardò bene dal tirare fuori i soldi per fondare banche private efficienti e efficaci che avrebbero fatto strame di quelle elefantiache e bolse banche pubbliche, con grande ristoro di tutti (mica fessi: loro sapevano che le banche private falliscono sempre e che ci si perde il capitale; meglio aspettare che D’Alema e Amato gli offrissero su un piatto d’argento quelle pubbliche, tutte da spolpare una volta privatizzate).
Nessuno neanche dalle università si levò a spiegare quello che anche Amato, Bassanini, Ciampi, Dini, D’Alema, Visco, Brunetta, Clarich, Cappugi, Spaventa, Imbriani ecc. sapevano benissimo (sarebbe tragico che personaggi con simili responsabilità non conoscessero, neanche per sommi capi, la storia economica del Paese), ma che ipocritamente tacevano. Infatti non è possibile che fossero all’oscuro del fatto che il sistema bancario italiano era soprattutto pubblico perché le banche private erano soprattutto fallite. E allora, siccome le banche pubbliche non possono fallire cosa si fa? Si privatizzano (termine che ha la sua radice in “privare”, sia chiaro)! Scrissi nel 1996 che alla prossima crisi, che prima o poi ci sarebbe stata, l’economia italiana non avrebbe avuto, come nelle altre crisi, il paracadute delle banche pubbliche.
La crisi è quindi esplosa e le grandi banche attuali, ossia il sistema bancario italiano, ormai tutte private, sono tecnicamente fallite. Per l’Italia è e sarà molto più difficile che per gli altri uscire dalla palude.
Ma se sto alle prospettive le cose possono ancora peggiorare. Il governo di Renzi per rimediare alla crisi bancaria ha deciso di trasformare in SpA tutte le banche che ancora non sono tali. Nel gennaio 2015 ha imposto la trasformazione delle banche popolari in SpA, soprattutto per salvare Banca Marche, Banca Etruria, Carichieti e Carife, le quali, manco a dirlo, appena 12 mesi dopo escono dalla malattia e entrano nel coma. Ora ha in programma la privatizzazione (trasformazione in SpA) anche delle banche cooperative, banche mutue e Casse rurali e artigiane. All’ottusità e all’ipocrisia non c’è fine.
ECCO QUANTO CI E’ COSTATA LA PRIVATIZZAZIONE DEL MONTE DEI PASCHI
- Mld. 20,0 – valore reale (approssimativo) del Monte all’atto della privatizzazione nel 1995
- Mld. 10,0 – valore cautissimo (calcolo semplice, non composto) di 20 anni di inflazione (2,5% annuo, ma si deve ricordare che l’inflazione, in pochi mesi dopo il passaggio dalla lira all’euro toccò il 100%: dalle 20.000 lire di un pasto al ristorante si passò a 20 euro e dai 300 milioni di lire di un appartamento si passò ai 300.000 euro)
- Mld. 5,0 – valore cauto dei mancati utili (almeno 250 mln di euro annui) in questi 20 anni; quelli dichiarati erano fasulli, ma la distribuzione agli azionisti avveniva ugualmente, a danno del patrimonio aziendale (vendita di cespiti attivi contabilizzati in bilancio a valori irrisori con incasso di forti plusvalenze)
- Mld.15,5 – aumenti di capitale in questi 20 anni (anch’essi sotterrati nella voragine)
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- Mld. 50,5 – valore totale ipotetico della banca alla fine di questi 20 anni se fosse stata gestita come in passato quando era pubblica
- Mld. 2,0 – capitale netto residuo (*) al valore di borsa attuale
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Mld. 48,5 – quelli che sono stati bruciati (**)
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(*) Appartiene per lo più a potentati stranieri, europei, nord e sud americani e cinesi.
(**) Siccome si parla di oltre 40 miliardi di crediti in sofferenza per i quali, se ceduti ad un’azienda specializzata, si può prevedere un recupero del 10%, i 48,5 miliardi bruciati diventano più o meno 80 miliardi. E ancora mancano all’appello valori rimasti misteriosi come la minaccia di altre perdite ingenti per i derivati (Alessandria e Santorini).